In questi giorni ho letto tantissime lettere di insegnanti preoccupati e rattristati dall’esito che sta avendo la riforma sulla scuola. Ne ho lette altrettante contenenti accese polemiche sul fatto che molti insegnanti vogliano dire come la pensano. Niente di strano, avrebbe detto il filosofo tedesco Habermas qualche decennio fa, è “soltanto” la sfera pubblica che si alimenta e genera opinione. Intanto però il tempo passa e la prima campanella dell’anno scolastico 2015-2016 è alle porte.

Premetto che questo articolo non parlerà della riforma, della mia opinione in merito, o di tutti i desiderata che ho annotato negli anni e che riguardano il sapere in tutte le sue forme e le organizzazioni che si sono prese la responsabilità di nutrirlo. Semplicemente, questo articolo vuole essere una testimonianza personale di ciò che da alcuni anni sto vivendo facendo il mio mestiere. Una testimonianza “a modo mio, con le mie parole e i miei occhiali”, un augurio di bellezza per l’inizio della scuola.

Non ho la presunzione che la mia storia interessi a qualcuno, se non alle persone care, piuttosto nutro la speranza di non essere un’isola e di poter condividere alcune esperienze che, arrivata a questo punto del mio percorso professionale, è opportuno mettere nero su bianco perché possano generare anche in altre persone nuove riflessioni o emozioni o, cosa che spero con tutto il cuore, entrambe le cose.

Ogni giorno mi chiedo quali siano, o quali dovrebbero essere, i valori capaci di guidare e orientare il lavoro di insegnante e le professioni di cura in generale. La risposta che sempre risuona nella mia testa è che sia necessario comprendere come nutrire il potenziale di ogni persona, come offrirle strumenti eterogenei tra i quali poter scegliere a seconda del compito e dell’obiettivo e come creare le migliori condizioni possibili affinché possa avere voce e tradurre il sapere in pratica quotidiana.

Certo. A parole sembra filare tutto liscio, mentre a volte nella realtà di questo momento storico, la consapevolezza si trasforma tristemente in frustrazione perché corre il rischio di invecchiare, non trovando alcuna applicazione possibile. E allora, quando mi succede di sentir crescere quel fastidio dato dalla voragine tra le buone pratiche e la realtà, mi fermo e riparto proprio dalla scuola. Riparto dalla laurea, dal dottorato, dai master, dai corsi di specializzazione e da ciò che ho imparato.

Credo infatti che sia impossibile insegnare senza aver prima imparato.

Quando lo sconforto bussa alla mia porta, riparto dai tanti anni passati tra i banchi, dai tanti libri letti e studiati, dalle lezioni che più mi hanno catturata, dai miei migliori insegnanti, dagli studenti che sono venuti fino alla cattedra per chiedermi approfondimenti e chiarimenti e dal piacere che il sapere ha sempre acceso dentro la mia testa, il mio cuore e la mia pancia.

In particolare durante l’ultimo master in Didattica e Psicopedagogia dei DSA, mi sono confrontata più volte con obiettivi, strumenti, strategie e parole e ho imparato ancora e ancora.

Per prima cosa, ho imparato a parlare un nuovo linguaggio, più vicino agli studenti in carne ed ossa e meno alle mie rappresentazioni ed aspettative, a volte rigide e troppo lontane dalla realtà. Ho compreso l’importanza di saper utilizzare nella quotidianità professionale di insegnante e tutor dell’apprendimento alcuni termini specifici, visualizzando concretamente gli obiettivi e cercando di ascoltare in modo attivo ed empatico i diversi interlocutori (studenti, colleghi insegnanti, famiglie, servizi). Ho lentamente compreso l’importanza di fungere per loro da impalcatura più che da ombra e non ho più descritto i training di potenziamento dicendo “i ragazzi che seguo”, preferendo di gran lunga l’espressione “i ragazzi che accompagno o dei quali mi prendo cura”.

Adottando metodologie didattiche come il modeling (modellamento), il coaching (allenamento) e lo scaffolding (assistenza), ho gradualmente realizzato che ogni potenziamento è innanzitutto un’attività di ri-scoperta del potenziale (quello del tutor e dell’insegnante e quello dello studente). Grazie a questa cornice interpretativa, la mia professione acquisisce nuovo senso e dà vita, con e per le persone che ho accompagnato, ad un percorso che ha come obiettivo quello di ripristinare un ben essere e un ben stare scolastico prima ancora che una parte delle funzioni deficitarie nel campo della scrittura, della lettura o del calcolo.

Con non poca fatica, come in una danza (Sclavi, 2000), sto imparando a muovere nuovi passi rispettando i tempi dell’altro, senza aver fretta, senza strattonare o imporre (modalità didattica che in passato avevo a volte utilizzato trovandomi ad aggravare la situazione e a “costruire muri anziché ponti”). Ho riscoperto il valore di sapersi muovere lentamente e consapevolmente, individuando per ogni studente obiettivi realistici e misurabili. Obiettivi a volte infinitesimamente piccoli, ma non per questo trascurabili o poco importanti nella quotidianità di uno studente in difficoltà.  Ho chiamato “solitudine dorata” il sentimento con il quale mi sono confrontata più volte con molti ragazzi, inizialmente oppositivi e abilissimi “costruttori di muri”, cercando in ogni modo possibile di non invadere e prevaricare, ma di entrare in punta dei piedi, ascoltando per poter capire le loro esigenze e non per aspettare il mio turno di parola già sicura di ciò che avrei detto loro.

Mi sforzo affinché i percorsi di potenziamento progettati come tutor dell’apprendimento abbiano sempre un duplice obiettivo: quello di incidere positivamente sul rendimento scolastico dei ragazzi e quello di modificare convinzioni e credenze sbagliate circa le loro abilità, lavorando quindi su skills trasversali come l’autoefficacia e la motivazione. Insieme a loro cerco di creare un’esperienza positiva alla quale ancorare nuove sensazioni gratificanti, perché basate sull’impiego consapevole di strategie apprese con l’obiettivo di superare una difficoltà.

In questi anni di professione ho preso coscienza di quanto solo una certa stabilità emotivo-affettiva possa consentire allo studente di superare le sue difficoltà con successo, acquistando un poco alla volta il compiacimento che si prova nell’imitazione e, in seguito, nell’esecuzione autonoma di un compito.

Riprendendo quanto vissuto nei panni di insegnante e tutor dell’apprendimento, posso affermare che per me, ad oggi, “insegnare è insegnare a pensare”. In questo percorso di esercizio del pensiero, il tutor ha il compito di individuare le difficoltà (utilizzando dove è possibile strumenti standardizzati adeguati), di progettare un training finalizzato al raggiungimento di obiettivi misurabili e concreti e di valutare gli eventuali passi avanti, incoraggiando e accompagnando gli studenti nella ri-scoperta del loro potenziale e nell’impiego di una o più strategie, in vista dell’autonomia.

In questo processo, il sorriso è realmente terapeutico (Lucangeli, 2014) e imparare ad utilizzare l’umorismo come strumento di lavoro consente di dialogare meglio con gli spigoli della propria professione e con lo studente, offrendogli nuove strategie da sperimentare (Bartoletti, 2012).

In conclusione, per quanto sia difficile in questo momento storico, poter lavorare con i ragazzi è sempre una scuola, è una grande opportunità per imparare. Il loro miglioramento è dovuto al fatto che abbiamo a che fare con fenomeni evolutivi, quindi con persone che crescono davanti ai nostri occhi e che maturano nel tempo. Questa maturazione deriva dall’interazione tra fattori biologici e ambientali, ma anche e soprattutto da esperienze di natura relazionale.

Gli insegnanti e i professionisti che si occupano di apprendimento in particolare, in questo senso, vivono l’importantissimo ruolo di “facilitatori di apprendimento”.

Per me è sempre incredibile ri-scoprire come con l’aiuto di un adulto consapevole e responsabile, lo studente sia in grado di sviluppare abilità che prima non erano presenti nel suo repertorio di azioni e di conoscenze. 

E questa, colleghi, tra le tante sfighe che abbiamo in questo momento storico, è la MERAVIGLIA quotidiana che ci portiamo a casa ogni giorno e che nessuno potrà mai toglierci.